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L'ARTE PREGEVOLE DI GIOVANNI MATANO


Un vero artista lo riconosci da alcuni elementi imprescindibili: l'amore per la propria arte, la curiosità, l'attaccamento quasi morboso verso le proprie opere, la spigolosità del carattere e un'innocenza disarmante. E lo stile. E' quello che mi è successo ammirando questa sua ballerina, mi guardava di sbieco da un angolo del suo studio (abitazione, ah dimenticavo, il vero artista non differenzia lo studio dalla casa), uno sguardo languido folgorante che mi ha fatto scattare nel cuore le note malinconiche delle Gymnopedies di Erik Satie, mi ricordava il volto di quelle eroine dell'Est europeo che vincevano medaglie d'oro alle olimpiadi volteggiando in sbarre e parallele, come Nadia Comaneci, atlete strepitose ma sole, votate alla disciplina e al sacrificio.


Giovanni Matano mi apparve burbero la prima volta, me lo fece conoscere una mia cara amica, sorella, collega del Canavese, Tiziana Biasibetti, a cui devo molto, soprattutto informazioni su mostre e eventi d'arte che circolavano a Torino e dintorni. E le devo molto per avermi fatto scoprire questo talento campano di Cascano di Sessa Aurunca, arroccato nel suo buen retiro piemontese di Castellamonte da più di cinquant'anni, che nonostante tutto manteneva un orgoglioso accento napoletano, come se lo sradicamento natale fosse diventato per lui orgoglio di appartenenza. Isolato e volutamente autoisolato, come per dire: ci sono ma non sarò io a cercarvi. Mi basta l'arte. E non riesco a spiegarmi, ora che ho lasciato il Piemonte, questa nostalgia nordica che mi fa pensare spesso a quei luoghi ameni e montani, che erano tortura e un leopardiano naufragare allo stesso tempo. In quei luoghi c'è anche Giovanni e dunque nostalgia anche di lui.


Un duro dal cuore tenero, come si evince in questo scatto del caro Roberto Roscetti, come l'altro ritratto del pittore, che in parte nasconde uno dei tanti capolavori di Matano: una famiglia di contadini con le mani enormi, che rappresentano fame ma dignità di lavoratori, la stessa dignità che ostenta il cane che sbircia dentro il sacco. A fianco un'altra donna arlecchinata con lo stesso sguardo della famiglia povera. E a destra un altro dipinto di donna, coperto da alcuni cavallini primordiali.


Un'arte primitiva che diventa ricerca antropologica e filosofica, che parte da queste maschere tribali per ribadire impulsi e vitalità inconsce, fame vera e propria ma anche fame di vita e di scoperta. Una ricerca che dall'inizio dei tempi ha portato l'uomo ad affinare la tecnica ma che non può prescindere dai bisogni primari.


Bocche aperte, bocche da sfamare, bocche meravigliate, bocche chiuse ma come cucite dal silenzio imposto dal potere. Ma volti che compongono un mosaico di emozioni umane, come a ricordarci che la solidarietà può sempre salvarci da un isolamento forzato che non ammette unioni, abbracci, scambio di idee, tenerezze tra figli e madri, tra amanti furtivi, come in una dittatura dello spirito che si autoimpone restrizioni e divieti.

Ma a Giovanni Matano non importa più di tanto, lui continua a dialogare con le sue marionette inanimate ma che lui può in qualunque momento rianimare fino all'eterno.


"Le maschere sono stati l’animo, emozioni che arrivano direttamente al cuore di chi le osserva. Un salto indietro nel tempo, verso quelle origini primordiali che ci appartengono, verso quelle emozioni che accomunano tutto il genere umano: sesso, dolore, stupore, meraviglia o paura." (Giovanni Matano)



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