GIOVANNA GIORDANO SU LE LUNGHE NOTTI DI DOMENICO TRISCHITTA
Lo vedo sempre passeggiare con il bavero alzato Mimmo Trischitta per le strade di Catania e percorrere su e giù le vie di notte alla ricerca di storie per i suoi racconti. E così, come un pescatore che butta le reti nel mare a prendere pesci, lo stesso fa Domenico Trischitta nel suo nuovo libro, “Le lunghe notti”, pubblicato in questi mesi da Avagliano. Lui fa lo scrittore “On the road”, sulla strada, come i suoi lontani amici Carver e Maupassant e addirittura Celine. E appena vede qualcosa di amaro o in fondo alla strada, dimenticato da Dio e dagli uomini, allora si entusiasma. C’è in questo nuovo libro una rocambola di uomini e donne piegati dalla sorte ma ancora vivi: un travestito, un camionista, un marinaio, un assassino, uno scrittore e pure un carcerato. Scrivo “nuovo” ma il libro nuovo non è perché in verità lui l’ha scritto da ragazzo, l’ha letto Pontiggia e a suo tempo si è appassionato pure lui. Poi il libro è saltato da redazione a casa editrice, da editors implacabili o poco sentimentali ed ecco che ora finalmente è uscito. E’ insomma un libro giovanile e come tale mosso da vortici ormonali, da inquieti desideri, dal flusso incessante di notte che chiama notte e che chiama ancora notte. Corti racconti e ancora più corti paragrafi nelle sue lunghe notti insonni fra papponi, marinai, poliziotti che picchiano, tatuati infiammati di violenza. E poi il desiderio di partire e di ritornare in Sicilia, un sentimento che si può tradurre con le parole: “ti amo e ti odio e non so perché”. Fra le pagine nella scrittura scarna sembra di sentire le musiche degli anni Settanta, quando lui era ragazzo. Poi pronto a dare ascolto a tutti, Trischitta, soprattutto, come Pasolini, a quelli che la voce non ce l’hanno. In qualche modo lui c’è sempre nella scena, o così sento perché lo conosco bene, con la sua prosa veloce, “siamo stati edonisti, abbronzati, biondi e latini”, fra echi di un ventenne di provincia a cui arrivano echi di un mondo più grande e lontano. C’è sempre lo Stretto di Messina come spartiacque fra noi e il mondo. Sono morti quegli anni e non ci sono eroi in queste pagine ma una umanità che in qualche modo sopravvive. Il mio racconto preferito si intitola “Del malato terminale” e racconta in prima e terza persona di una madre che è più qui che lì, ovvero sono le sue ultime ore. E tutto guarda come una nave che ha tirato su l’ancora e lascia la vita per il mare aperto, la morte. Sono poche parole e struggimento, verità e compassione di una donna sul letto di morte. Quello che mi ha fatto sorridere di più si intitola “Del malato lieve” che invece se le sente tutte addosso le malattie anche se sta bene. Questo è un libro immerso nell’esistenza dei molti che trascinano o anche prendono a botte la loro unica e irripetibile vita.
Giovanna Giordano