ROSALBA GALVAGNO SU L'ORO DI SAN BERILLO
Domenico Trischitta, L’oro di San Berillo. Dramma in due atti. Fotografie di Giuseppe Leone. Prefazione di Pippo Baudo. Presentazione di Orazio Torrisi. Algra editore, Viagrande (Catania) 2015.
Ho letto questo bellissimo libro di Domenico Trischitta colpita sicuramente dal titolo, che evoca quello del libro di Giuseppe Marotta (L’oro di Napoli 1947) da cui è stato tratto l’omonimo film di Vittorio De Sica (1954) e irresistibilmente attratta anche dalle foto di Giuseppe Leone che lo illustrano e sulle quali torneremo. La mia lettura è stata filtrata anche dalla fama letteraria (Brancati, Addamo) del vecchio quartiere di Catania e dalla sua recente rivisitazione cinematografica grazie al film-documentario di Maria Arena Gesù è morto per i peccati degli altri (2014). E, infine, dal mio frequente passaggio nelle strade adiacenti del vecchio San Berillo, da dove si possono ancora scorgere alcune stradine e i ruderi di quel che rimane dello storico quartiere, come d’altronde le splendide foto di Giuseppe Leone a corredo del dramma, testimoniano.
Il dramma in due atti di Domenico Trischitta possiede la virtù dei veri testi di evocare attraverso discrete ma efficaci pennellate la grande Storia e la piccola storia che hanno caratterizzato la vita dal quartiere. Attraverso il procedimento del sogno, un procedimento consueto in letteratura e abilmente sfruttato dall’autore, la vicenda attuale della scena teatrale situata nel 1993 nel quartiere di San Berillo a Catania viene proiettata indietro nel tempo al momento dello sbarco degli Alleati in Sicilia nel 1942, e quindi nel dopo guerra e negli anni Cinquanta. Del quartiere vengono così evocati l’ambiente sociale, i lavori artigiani, le giornate dei ragazzi di allora, i loro amori mercenari.
Ora, la prostituzione, alla quale da sempre viene associata l’intera storia di San Berillo, nel dramma di Trischitta è integrata nella quotidianità del quartiere, osservato e narrato naturalmente con lo sguardo di chi lo abita e non con lo sguardo esterno di chi vi scorge soltanto lo stereotipo del quartiere hard.
Il sognatore è Don Saro, che allungatosi su una sedia a sdraio in uno stabilimento balneare, si abbandona al sogno sulle note di Se potessi avere mille lire al mese. Don Saro è uno dei protagonisti dell’allegra brigata che anima i due atti del dramma insieme a una miriade di altri personaggi maschili e femminili: gli abitanti di San Berillo, artigiani, prostitute, ma anche borghesi che si addentrano nel quartiere «a luci rosse per spegnere il fuoco siciliano», come scrive Pippo Baudo nella sua Prefazione al libro (p. 11). Il sognatore, dicevamo, o meglio il suo sogno, fa dunque da anello di congiunzione tra un prima e un dopo del celebre quartiere di Catania oppure, per servirmi della metafora del titolo del dramma, tra l’oro di San Berillo e quel che resta dopo la ferita subita con lo sgombero e lo sventramento alla fine degli anni Cinquanta, una ferita assai più grave rispetto a quella prodotta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, dalla quale invece il quartiere «risorge più florido» secondo quanto scrive Orazio Torrisi nella sua Presentazione (p. 13), una ferita a tutt’oggi non ancora rimarginata. Scrive infatti nella sua premessa Domenico Trischitta: «Prima i bombardamenti dell’ultimo conflitto mondiale, poi lo sventramento urbano alla fine degli anni Cinquanta, hanno fatto di questo disordinato agglomerato di case, situato nel cuore del centro storico della città, “un’anima purgatoriale” alla ricerca della propria identità. […]. Prima la “deportazione” forzata degli abitanti nel nuovo San Berillo, poi la criminalità organizzata degli anni Settanta, hanno distrutto e trasformato tutto». (p.15) Lo scrittore dichiara quindi le fonti storiche e letterarie che hanno sicuramente contribuito, ma non solo (le fonti autobiografiche sono senza dubbio le più importanti), alla drammatizzazione dei ricordi dell’antico San Berillo, nel quale si era venuta plasmando «un’anima catanese (comica e grottesca, ironica e drammatica)»:
C’è ancora qualcuno che può veramente dichiararsi catanese?
Noi ci affidiamo alla memoria dei “superstiti”, dei testimoni, alle pagine di Brancati e Addamo, alle performances di Angelo Musco, ai primi piani di Daniela Rocca, ai contrabbandieri di sigarette, agli storici e pescatori di questa città, e anche a qualche prostituta sessantenne con l’accento napoletano. (ibid.)
E una indimenticabile prostituta di nome, o soprannome, Napoletana movimenta effettivamente il nostro dramma. Accanto a Napoletana si agita un’altra struggente figura di prostituta, Lina, colei che innamorata del suo cliente viene invece abbandonata al suo destino.
I due atti de L’oro di San Berillo, che coincidono coi due tempi dell’azione, il tempo passato del sogno e il tempo presente del sogno infranto, sono contrappuntati da una costante colonna sonora che evoca i refrains di alcune celebri canzonette: Se potessi avere mille lire al mese, il tema di Morricone dal film C’era una volta l’America, l’audio di un vecchio film degli anni Quaranta, Noi vivi, con Alida Valli, proveniente dal cinema Mirone (altro luogo mitico del vecchio quartiere), Grazie dei fiori di Nilla Pizzi, la musica di Amarcord di Nino Rota, Parlami d’amore Mariù e, infine, Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno. A queste canzoni si affiancano pure citazioni di alcuni giganti della lirica come Caruso, Tamagno, Gigli, la Callas, e anche riferimenti alla Cavalleria Rusticana, tutto un mondo canoro e musicale, che sottolinea con efficacia un tratto precipuo dell’«anima catanese», per usare la precisa espressione di Trischitta, un’anima che ritroviamo anche nella grande letteratura siciliana, penso specialmente a De Roberto, alla sua passione per la lirica.
L’oro di San Berillo pullula di personaggi, sono ben 24, tutti necessari alla coralità del dramma e al suo milieu popolare, che non a caso viene imitato per mezzo dell’uso preponderante del dialetto catanese e, a tratti, di quello napoletano. La napoletanità è un tratto distintivo del quartiere, poiché gran parte delle prostitute provenivano da Napoli. Oggi, com’è noto, e come anche il film di Maria Arena documenta, il mondo della prostituzione è variegato, multietnico, con una preponderante presenza di lavoratori transessuali, una facies ibrida dunque, che è stata mirabilmente catturata dagli scatti di Giuseppe Leone.
Quanto poi al genere propriamente teatrale dell’Oro di San Berillo, alla sua rappresentazione, Orazio Torrisi scrive:
Perciò sarebbe bello rappresentare il lavoro proprio là dove è ambientato, in una di quelle minime aree superstiti del vecchio San Berillo, a stretto contatto col pubblico. Siamo persuasi che per radicare e diffondere nel territorio l’arte drammatica, il Teatro vada portato anche tra la gente, fuori dal sacro quadrato del palcoscenico, creando occasioni di confronto e interscambio nei centri nevralgici della società civile. (p.14)
Mi permetto di aggiungere a queste parole una postilla: è certo che bisogna innanzi tutto portare il teatro, il dramma di Domenico Trischitta in particolare, nel luogo stesso da cui esso è insorto (un po’ come fa il fotografo con la realtà che vuole catturare), non tanto però «per diffondere l’arte drammatica nel territorio», quanto piuttosto per provocare negli spettatori un effetto di verità, un autentico choc drammatico. Non quindi il dramma al servizio del teatro quanto piuttosto il dramma rivolto al pubblico, un dramma capace di suscitare ancora gli antichi sentimenti della pietà e della paura.
Ed è proprio quest’effetto mimetico che producono le splendide foto di Giuseppe Leone che sembra veramente avere penetrato L’oro di San Berillo nei suoi aspetti lievi e operosi, ma anche in quelli più malinconici.
Vorrei concludere con un rapido sguardo rivolto alla perigrafia del testo, sguardo che di solito dovrebbe precedere la presentazione, ma che ho preferito spostare alla fine perché in qualche modo mi serve a inquadrare il testo di Domenico Trischitta dentro la sua indispensabile cornice, che è costituita da una dedica: «A mio padre». Da due epigrafi: la prima tratta da Lucio Battisti, che recita «Un artista deve comunicare solo con la sua arte» e la seconda da un libro dello stesso Trischitta, Una raggiante Catania del 2008: «Eravamo dei bastardi, figli di un dio minore che si chiamava San Berillo, protettore dei deportati dei quartieri sventrati», un’epigrafe quest’ultima che fa venire la voglia di saperne un po’ di più su San Berillo, intendo sul santo oltreché sul quartiere stesso.
Infine, a chiusura del volume, un ritratto fotografico del nostro autore, ritratto che, leggermente variato, viene riproposto anche nell’ultima di copertina.